Per il terzo anno consecutivo abbiamo organizzato, in occasione del nostro pellegrinaggio di giugno, un concorso letterario tra i pellegrini partecipanti al pellegrinaggio stesso. Quest’anno è stato prescelto come tema una novella o racconto sul pellegrino. L’argomento ha tanto stuzzicato i partecipanti per cui abbiamo ottenuto 13 composizioni su cui la giuria del 2012 ha scelto le tre prime classificate. I nostri pellegrini hanno apprezzato tutti i racconti per cui abbiamo deciso di pubblicarli tutti sul nostro sito e di aggiungere qualche nota esplicativa per gli eventuali lettori non addentro alla nostra vita e attività pellegrinare.
Poiché ci è stato sollecitato da più parti di dare alla stampa questa raccolta di racconti sui pellegrini, troveremmo conveniente che contribuissero con loro composizioni alla stesura di questa opera, tanti altri esponenti della nostra compagine de “I Pellegrini della Francigena”, che non hanno partecipato a quest’ultimo pellegrinaggio.
C’erano una volta due facce di pietra scolpite ai lati del portale di un’abbazia costruita in cima ad un
monte. Una era la faccia di un giovane, l’altra quella di un vecchio. La gente della valle sosteneva che
esse potessero conoscere l’animo di chi passava sotto il portale e che qualche volta, se si intenerivano
delle disgrazie e dei rovelli dei pellegrini, mettessero una parola buona con l’angelo che fronteggiava la
madonna sul fìnestrone dell’altare.
Capitò che in una notte di bufera bussasse al portone dell’abbazia un vecchio pellegrino. L’aspetto era
assai malmesso, aveva i vestiti zuppi e si reggeva a stento sul bordone. Al suo passaggio sotto il portale,
le due facce si scambiarono i commenti, il giovane disse:”Che vecchio scriteriato! Salire su di notte e con
questa bufera! Non poteva aspettare domattina?”. Ma di fronte a lui l’altra faccia obbiettò sentendosi
solidale con l’età del malcapitato: “Si vede che ha una grande fede e poi i vecchi non hanno tempo da
perdere!”.
L’indomani arrivarono all’abbazia, ma ognuno per suo conto, anche una giovane donna con il figlio appena
nato in braccio e un ricco e baldo giovane in sella al suo cavallo. Anzi, lungo la salita l’uomo gridò
sprezzantemente:”largo!” a quella pezzente che gli ostruiva il passo.
Arrivato in cima le due facce come al solito lessero cosa covava nel suo animo: “Eccolo lì il figlio del
conte della piana, il padre l’ha mandato fin quassù perché di qui passerà il papa che va a Roma, eccolo lì
arrabbiato per questa faticata, seccato di non poter restare a gozzovigliare con i suoi amici!”,” E questa
qui? Quel povero bimbo denutrito e senza un padre che badi a loro! Bisognerà proprio chiedere all’angelo che
convinca i monaci a non farli più andar via”.
Così passò un’altra notte, le due facce di pietra parlarono con l’angelo del finestrone, il quale a sua
volta intercesse con la madonna che aveva proprio di fronte.
Il mattino dopo di buon ora tre persone lasciavano l’abbazia tornando verso la vallata. Chi erano?
Erano il giovane nobile che camminava tenendo il cavallo per le redini, sopra il cavallo c’erano la donna
rivestita di begli abiti, col bimbo risanato in braccio.
E il vecchio pellegrino? E il papa?
Beh, ma è ovvio! Erano la stessa persona. Rimase un altro giorno all’abbazia per ringraziare la madonna di
aver mutato l’animo del giovane e dato un futuro sereno alla donna ed a suo figlio e poi si rimise in
cammino verso Roma .… con i suoi abiti malandati, il bordone e la scarsella.
NOTA ESPLICATIVA:
L’abbazia di cui si fa menzione è in realtà la Sacra di San Michele. Il viso di pietra del vecchio esiste
tuttora, mentre la scultura del viso del giovane è stata trafugata anni fa, ma è poi ricomparsa, pare in
seguito ad un rimorso di coscienza di chi l’aveva rubata, ed ora è conservata dai frati dell’abbazia in
attesa di essere ricollocata al suo posto. Anche l’angelo e la madonna stanno realmente ai lati del
finestrone dell’altare... ma certo tutto ciò che riguarda eventuali loro dialoghi notturni è frutto della
fantasia dell’autrice.
C’era una volta una città, il suo nome era Gerusalemme. Era stata una città del pianeta Terra, uno dei tanti
del sistema solare. Era lì che il Pellegrino si stava dirigendo a bordo di una vecchia astronave che
pilotava procedendo con andatura lenta. La velocità era di circa tre miglia astrali, molto bassa se
paragonata alle prestazioni fornite dai mezzi che normalmente solcavano quei spazi interplanetari. Ma al
Pellegrino andava bene così; anzi così aveva voluto. Era infatti sua intenzione percorrere la distanza che
separava la sua galassia dal pianeta Terra in 15 lunghi giorni galattici: così facendo avrebbe rispettato lo
stesso tempo utilizzato e narrato in quello strano libretto che aveva già letto e riletto più volte.
Tutto era cominciato per caso quando aveva avuto l’incarico, in quanto archeologo, di studiare e valutare i
pochi elementi storici cui si faceva riferimento in quello strano documento che era stato catalogato con il
protocollo: AZ19 – Il diario dei Pellegrini della Via Francigena.
La vicenda narrata era quella di uno strano ed eterogeneo gruppo di terrestri che avevano in comune, forse,
solo la voglia di uscire dai loro giorni per intraprendere un lento cammino a piedi che li avrebbe portati
in un territorio a loro lontano e lì cercare chi sa cosa. I riferimenti storici erano pochi e confusi, non
si sapeva neanche quale nome attribuire a quei territori: qualcuno li identificava con il nome di “Israele”,
altri sostenevano “Palestina”. Di certo si sapeva che una lunga guerra, mai risolta, era stata combattuta da
quelle popolazioni e nulla si era mai saputo circa la fine di quel contendere.
L’archeologo era rimasto talmente affascinato dalla storia di quel pellegrinaggio, che anche lui aveva
voluto indossare le immaginarie vesti di pellegrino e tentare di raggiungere, con un lento viaggio, la
stessa meta “Gerusalemme”. Nel documento la città veniva descritta dai terrestri in tanti modi diversi ma
tutti esaltanti: affascinante, unica, mistica, il centro del mondo, la radice della vita, la culla delle
religioni ed ancora altre.
Inoltre, era stata il palcoscenico di una grande storia vissuta da un uomo chiamato Gesù il quale aveva
diffuso sulla terra una tale forza spirituale in grado di cambiare la vita su quel pianeta.
Nella sua galassia, il Pellegrino aveva avuto, dai potenti sistemi informatici, tutte le risposte
scientifiche e razionali possibili alle sue domande in merito; ma lui non era rimasto soddisfatto. Non gli
era bastato e per questo aveva deciso di vivere una esperienza simile a quella narrata da quei strani
pellegrini umani. Voleva vedere cosa era rimasto di quella città sul pianeta terra.
L’astronave entrò nel sistema solare. Procedeva lentamente, circa tre miglia astrali per ora stellare ed era
giunta esattamente al 15° giorno galattico di navigazione quando gli strumenti segnalarono l’avvicinamento
al pianeta Terra.
Il Pellegrino cominciò a vederlo anche ad occhio nudo e, mano mano che si avvicinava, iniziava anche a
distinguere i colori che lo contornavano: l’azzurro, il bianco ma poi anche il verde e il marrone. Bei
colori di un bel pianeta che non sembrava essere abbandonato e privo di vita.
Inserì le coordinate terrestri della sua meta nello strumento di navigazione: subito l’astronave virò e
puntò giù dirigendosi verso uno strano punto da cui si innalzava un grande fascio luce bianca.
I suoi occhi non riuscivano più a vedere: l’astronave lentamente entrò in quella luce e per il Pellegrino
non fu più il silenzio.
C’era una volta un serpentello di nome Corallino.
Aveva due occhietti vivaci, una codina birichina ed era colorato con tutti i colori dell’arcobaleno, ma per
una strana mutazione aveva la pelle nuda.
Egli non si preoccupava di ciò, anche se il sole gli scottava la pelle e si feriva strusciando su sassi
aguzzi e legni appuntiti.
Corallino era allegro e felice con la sua mamma, i fratellini e gli amici e, pur appartenendo a una specie
velenosa, raramente adoperava il suo veleno per uccidere i piccoli animali del bosco in cui viveva, ma era
ghiotto del miele delle api e dei frutti succosi che cadevano dagli alberi.
Un giorno, mentre giocava con il suo amico Cip-Ciop, udì una strana parola che lo aveva molto incuriosito e
meravigliato.
La parola era “pellegrino”.
La sera, alla mamma, che era andata a dargli il bacino della buonanotte, aveva chiesto: “Mamma io sono un
pellegrino?” La mamma gli rispose di no e che lui era il più bel serpentello del mondo.
Ma Corallino era rimasto così incuriosito e affascinato da quel mistero da perdere l’appetito e la voglia di
giocare.
Infine un giorno verso le cinque della mattina si mise lo zaino in spalla con poche cose e un po’ di cibo,
scrisse un biglietto alla mamma dicendole che le voleva bene e che andava alla ricerca del “pellegrino”.
Corallini strisciava e strisciava nel bosco. Le erbe taglienti e i sassi lo ferivano e il sole, quando
riusciva a filtrare dai rami degli alberi gli seccava la pelle, anche se la sua amica chiocciolina cercava
di proteggerlo con la sua bava.
Un giorno vide, in un sentiero nel bosco, un uomo, con un lungo bastone alla cui sommità era una bellissima
conchiglia, che camminava a passo svelto e, come per magia, capì che quello era “il pellegrino” che andava
cercando.
Corallino gli si avvicinò timidamente con i suoi occhi dolci e pieni di attesa nella speranza di poter
diventare suo amico e così fu.
Il pellegrino lo invitò ad arrotolarsi sul suo bastone e gli parlò del suo lungo camminare, pei luoghi che
aveva visitato, delle persone che aveva incontrato e della meta del suo viaggio.
Corallino lo ascoltava affascinato e sempre più desideroso di raggiungere con lui la città sconosciuta dove
viveva un uomo buono, vestito di bianco, che amava tutte le creature compresi i serpentelli. Così non si
staccò più dal bastone del suo amico anche quando il sole era così caldo e l’aria così secca da farlo
diventare sempre più sottile e trasparente, tanto che un giorno di lui rimasero soltanto i bellissimi
colori.
Il pellegrino finalmente giunse nella grande città, in una piazza immensa, e sollevò in alto il bastone dai
meravigliosi colori per ricordare il suo amico e il suo grande sogno e, come per miracolo, apparve nel cielo
il più meraviglioso degli arcobaleni.
C’era una volta... un re che abitava in un magnifico castello turrito costruito su un’altura che dominava
un regno vasto e popoloso.
Era un re magnanimo e generoso con i propri sudditi, ma, pur essendo ricco e potente, non era felice perché
si sentiva solo e isolato dalla sua gente, ma soprattutto, ad accrescere la sua tristezza e quella
dell’amata regina c’era il fatto che la sua età cominciava ad essere avanzata e non aveva eredi che gli
succedessero sul trono.
Un giorno al castello si presentò un mago che, vestito con vesti lacere e sporche, mendicava ospitalità.
Questo mago era un burlone e amava mettere alla prova i potenti di questo mondo per saggiarne pregi e
difetti.
Nonostante il suo aspetto misero il re lo ospitò dimostrandosi generoso e buono.
Il mago volle contraccambiare chiedendo al re quale fosse il suo desiderio più grande e questi, con
tristezza, gli rispose che la mancanza di un erede al trono lo angustiava profondamente.
Ebbene, disse il mago, ti voglio accontentare, ma prima voglio accertarmi se anche i tuoi sudditi sono
generosi come il loro re, e quindi degni di un erede al trono.
Perciò ti devi trasformare in un mendico lacero e sporco come ero io quando mi sono presentato al tuo
cospetto e devi andare a bussare alla porta dei tuoi sudditi. Se risponderanno generosamente io darò a te, e
a loro l’erede al trono.
Il re indossò un abito stracciato, si avvolse in un mantello rattoppato, calzò sandali sfondati e si fornì
di un lungo bordone. Vestito da umilissimo pellegrino il re si presentò alla porta dei propri sudditi.
Era dura la vita da pellegrino, specialmente per uno come lui abituato al lusso e agli agi, ma era felice
perché ovunque andasse trovava una calda accoglienza.
Si sentiva vicino al proprio popolo e si rese conto che un buon governo porta sempre buoni frutti e la bontà
genera spesso bontà.
Dopo alcuni mesi di pellegrinaggio il re tornò al suo castello e presto ebbe la gioia di vedere realizzato
il sogno di un erede.
Portò sempre nel cuore la splendida esperienza di pellegrino e... tutti vissero felici e contenti!
C’era una volta un pellegrino, si chiamava Mario, e da dodici anni seguiva, passo più, passo meno, un
nutrito gruppo di altri suoi simili.
Questa volta gli era stato associato, come compagno di stanza, Dino una persona con cui si era trovato
subito bene. Insieme formavano una coppia particolare: il primo di poche parole (questo era il suo
carattere, “schivo” per natura) l’altro parlava ancora meno vuoi perché con un carattere ancora più schivo,
vuoi perché sordo.
Dalla loro camera non proveniva alcun rumore oppure, al contrario, si udivano parole pronunciate con toni
alti (l’uno doveva farsi capire dall’altro ed era cosa ardua perché, quando era in camera, Dino si toglieva
l’apparecchio).
A Tortona si ritrovarono insieme in una camera immensa con quattro letti, un terrazzo ed un caldo infernale
come ebbe modo di constatare Mario al rientro , dopo cena, da una passeggiata fatta in centro in compagnia
(fatto incredibile) di ben otto pellegrine.
Si era messo a letto.
Di quando in quando accendeva la pila per vedere l’ora ma il tempo passava lentamente ed il sonno tardava ad
arrivare complice il caldo ed anche i rumori che provenivano da Dino.
In questa veglia gli tornarono alla mente le parole del “Capo”: “alle cinque e trenta tutti sul pullman”.
Doveva trovare il modo di dormire un po’.
Per rinfrescarsi era uscito sul terrazzo. Qui era una goduria. Una brezza fresca, piacevole oltremodo,
invitava a rimanere lì. Ah poter dormire lì.
Una breve visita, pila alla mano, al contenuto dell’armadio ed il problema si era subito risolto. Dopo pochi
minuti si era ritrovato disteso su due coperte poggiate sul pavimento del terrazzo a guardare le stelle che
luccicavano, insieme alle luci intermittenti di un aereo, nello spicchio di cielo che si lasciava vedere
oltre la tenda.
Era piacevole, non c’era dubbio. ma... il sonno? Niente!
I rumori della città, col passare delle ore, si andavano attutendo ma gli occhi continuavano a guardare le
stelle.
A un tratto un fruscio di ciabatte arrivò dalla camera seguito dall’accendersi di una luce sotto la porta
del bagno.
Era Dino che andava in bagno e che sarebbe tornato a letto subito dopo.
E se questa volta, preso anche lui dal caldo, fosse venuto a rinfrescarsi sul terrazzo?
Oddio che fare?
I piedi rimanevano davanti la porta e lui, al buio, non li avrebbe visti, ci avrebbe inciampato e …. Meglio
non pensare ai moccoli che avrebbe detto nel finire lungo e disteso sul pavimento del terrazzo (ma Dino
bestemmiava? Non lo aveva notato).
Ma c’era la pila che teneva in mano a suggerirgli la soluzione. Bastava un breve lampo per segnalare la sua
presenza.
Già, ma come avrebbe reagito al vedere una luce accendersi improvvisamente ed illuminare un corpo disteso
sul pavimento?
Vuoi vedere che gli prende un “colpo” o gli urli avrebbero svegliato tutti gli ospiti dell’edificio?
La luce sotto la porta del bagno si spegne. Il fruscio delle ciabatte si ripete ma senza avvicinarsi al
terrazzo. Dino ha deciso di tornare a letto. Meglio così!
Un alone di luce verso la sveglia posta sul pavimento del terrazzo accanto al cuscino gli indica un’ora in
cui tutti dormono. Tutti tranne lui. E domani dovrà guidare gli altri su strade che non ha mai visto. Chiede
aiuto a Morfeo ma probabilmente anche lui sta dormendo.
Poi gli tornano a mente le parole-ultimatum di Alfredo (altro pellegrino, ma quanti pellegrini ci sono in
questa storia?) in merito ad una certa... favola.
Decide su due piedi, ansi stando supino. Andrà a scrivere qualcosa.
In breve con la pila in mano, che va esaurendosi, rintraccia un foglio ed una biro e si ritira nello
“studio” per non svegliare Dino che continua a rumoreggiare tranquillo.
Seduto sul sedile del vaso in un bagno che è una sauna finisce di passare una notte da... “ricordare”.
Quando torna sul terrazzo e guarda il cielo nota che le stelle stanno scomparendo sostituite da un alone di
luce che, ad est, si fa pian piano più intenso.
Abate aquilante dei pellegrini misericordiosi
Priore dell’Abbazia di San Miniato però... Basso.
C’era una volta un signore di nome Eraldo di Giacomo che viveva a Fornovo non lontano dal fiume Taro. Era
nato nell’Anno Domini 1270 ed avendo inclinazione per la vita clericale aveva frequentato gli studi a S.
Donnino, ma crescendo, ed avvertendo frequenti pruriti per il cosiddetto sesso debole, si era dedicato agli
studi scientifici ed era diventato quello che si può ora chiamare un ingegnere edile.
Avendo acquisito una certa professionalità nel campo, veniva impiegato abbastanza spesso nella direzione dei
lavori di ripristino del lungo ponte in legno che attraversava il Taro e che spesso riportava danni gravi
alle strutture durante i nubifragi primaverili.
Il ponte era gestito dalla dipendenza locale dei Frati Ospitalieri del Tau di Altopascio, esperti nella
manutenzione di ponti, così come nella cura e assistenza ai pellegrini che si muovevano lungo la Francigena.
Quando papa Bonifacio VIII, nel Natale del 1299, dichiarò Santo il 1300 ed istituì il primo Anno Giubilare,
si creò un flusso veramente enorme di pellegrini che giungendo a Roma, contribuirono pure a rimpinguare le
Casse del Papato prosciugate dalle tante guerre e guerrette scatenate dal papa contro le fazioni nemiche che
attentavano al suo trono.
Eraldo decise di partecipare al pellegrinaggio sia come fervente credente che per vedere la Casa Madre del
Tau di Altopascio.
Partì da Fornovo dopo la metà di Aprile, subito dopo Pasqua, sperando di incontrare un tempo meno
inclemente. Ma gli si parò subito davanti la montagna più alta del suo cammino che mise a dura prova il
nostro pellegrino. Era il Monte Bardone che per varie miglia risultò ancora coperto di neve: per fortuna la
neve era abbastanza battuta dai pellegrini passati numerosi prima di lui per cui dopo 5 giorni con sollievo
si trovò a scendere per la Tuscia. Finita la neve, dopo un’altra settimana giunse a Lucca e poté inchinarsi
a pregare davanti al famoso e venerato Volto Santo e giunto ad Altopascio fu accolto con deferenza dal Gran
Maestro dei Cavalieri del Tau che conosceva l’opera svolta da Eraldo al ponte di Fornovo.
Partì da Altopscio ben rifocillato ed accudito e subito si imbattè nelle boscaglie intricate delle Cerbaie e
giusto grazie alla sua forza giovanile e all’acuminato bordone, riuscì a tenere a bada alcuni lupi affamati
che avevano tentato di assalirlo. Dopo 4 ore di cammino giunse ad una locanda chiamata Mulin del Topo,
proprio a cavallo di un fiumiciattolo che alimentava la macina del grano. Aveva già un discreto appetito e
l’ostessa prosperosa che gli si parò davanti contribuì ad aumentarlo, stuzzicando pure altri suoi appetiti.
Per farla breve passò la notte e la mattina successiva al Mulin del Topo ed apprezzò tutte le specialità
offerte dalla casa.
Il resto del pellegrinaggio verso Roma si svolse abbastanza tranquillamente in una quindicina di giorni, in
compagnia di altri pellegrini. Pregò sulla tomba degli apostoli Pietro e Paolo anche se gli succedeva di
pensare spesso alla ostessa del Mulin del Topo. Purtroppo cominciò pure a sentire dei fastidiosi doloretti
al basso ventre e la seccatura era che non accennavano a passare anzi gli creavano pene sempre più intense.
Decise perciò di anticipare la partenza verso casa, ma le tappe verso il Nord diventarono per lui una
sofferenza sempre maggiore. Giunto finalmente al Mulin del Topo fu accolto con calore dall’ostessa che
accortasi del suo stato deplorevole non poté che somministrargli un brodino, a suo dire miracoloso ed un
impacco di un unguento appiccicoso spalmato sulle sue parti basse.
Ma lui volle partire il più presto verso Altopascio dove sperava di giunger prima di sera confidando di
avere sollievo dalle cure miracolose dei Frati del Tau.
Giunto ad appena un miglio dal famoso Hospitale fu purtroppo assalito da due briganti che, profittando del
suo stato debilitato, lo espropriarono di ogni suo bene, dandogli in più un sacco di legnate. Rimasto solo e
dolorante a fatica riuscì ad alzarsi e giungere dai frati con l’aiuto provvidenziale dei tocchi della
Smarrita, quando già aveva fatto buio nei boschi delle Cerbaie.
I Frati del Tau fecero del loro meglio per curare questo ospite di riguardo già tanto debilitato e cosparso
di numerose ferite.
Dopo due giorni decedeva miseramente e veniva pietosamente seppellito nel cimitero locale.
Purtroppo il Gran Maestro dell’Ordine del Tau non poté far altro che inviare un altro valido fabbriciere al
Ponte sul Taro di Fornovo.
Questa era la vita rischiosa dei pellegrini medioevali.
NOTA ESPLICATIVA:
Il pellegrino Eraldo di Giacomo è un personaggio frutto della fantasia dell’autore mentre i luoghi e gli
avvenimenti storici raccontati sono realmente esistiti.
C’era una volta un gruppo di uomini e di donne che, non sapendo cosa fare, decisero di fare i pellegrini.
Misero negli zaini il minimo indispensabile, indossarono una maglietta azzurra e cominciarono a camminare
per strade trafficatissime, rischiando ad ogni momento di finire sotto un camion, ma poi col tempo
impararono anche ad andare per colline e praterie.
Alla fine di una giornata faticosa, in un bosco, all’imbrunire, incontrarono San Francesco e lo riconobbero
subito perché tutti lo avevano già visto rappresentato nei dipinti o nelle figure dei libri, ma anche perché
ognuno San Francesco se lo porta con sé.
“Chi siete e cosa fate?” chiese San Francesco e tutti insieme risposero: “Siamo pellegrini; camminiamo, ma
non sappiamo dove arrivare, né cosa stiamo cercando e la sera quando ci fermiamo siamo tanto stanchi”.
Allora San Francesco disse: “Non è importante arrivare. La cosa veramente importante è mettersi in cammino e
se non foste mai partiti da casa non mi avreste mai trovato. Poi se la sera siete stanchi provate a lasciare
dietro di voi tutto quello che non vi serve: pensieri inutili, idee pesanti, false preoccupazioni.”
I pellegrini ringraziarono e San Francesco li benedisse. Da quel momento cominciarono a buttar via dalla
loro testa: pensieri, idee, preoccupazioni, che appena toccavano terra si trasformavano in foglie e il vento
le portava via. Così continuavano a camminare e mentre camminavano parlavano, ridevano, cantavano,
litigavano, alcuni dicevano il rosario, altri raccontavano storie e qualcuno si infrascava per fare pipì.
Col passare del tempo diventavano sempre più leggeri, così leggeri che ogni tanto qualcuno scompariva; però
i pellegrini che scomparivano, non scomparivano veramente, ma si ritrovavano tutti su di una stella, a nord,
verso la stella polare. Non avevano più le magliette, ma un vestitino celeste che arrivava fino ai piedi,
con due buchi sulle spalle per far uscire le ali. E siccome non sapevano cosa fare decisero di mettersi in
cammino per raggiungere una nuova stella e da lì sarebbero passati ad un’altra e poi ad un’altra ancora.
Camminavano nel cielo trasparente e mentre camminavano parlavano, ridevano, cantavano, litigavano e i primi
arrivati aspettavano gli altri prima di ripartire. Ogni tanto qualche pellegrino leggero li raggiungeva
dalla terra per camminare con loro.
NOTA ESPLICATIVA: Aldo ha composto questo racconto, particolarmente apprezzato da tutti i pellegrini, nei giorni immediatamente precedenti alla morte del nostro pellegrino Giuseppe che per un improvviso male incurabile non ha potuto partecipare al pellegrinaggio. Il testo del racconto è stato donato alla vedova Maria quando, al termine del pellegrinaggio, tutti i pellegrini sono passati da Firenze a dire una preghiera sulla tomba di Giuseppe.
C’era una volta una bambina che ogni giorno saltellava felice cantando sulle mura della sua città.
Un giorno la sua mamma la pregò di andare a trovare la nonna che abitava lontano (una donnina alta, magra,
bionda con i capelli a spazzola): “Però attenta, potresti fare brutti incontri!”
La bambina partì felice, salutando i suoi tre amici: un pavone (Paolo), un elefante (Egisto), e una lucciola
(Lucia).
Trotterellando, vide un gruppo di lupacchiotti pellegrini un po’ spelacchiati, ma sembravano ancora tutti
cuccioli.
Nel suo pellegrinare incontrò anche il lupo capo branco: “Pimpinella non correre!”
Povera bambina! Spesso era cazziata per questo.
Poi scoprì che c’era un pellegrino piccolo che aveva sempre stretto nelle sue mani un giocattolo.
La bambina gli stava sempre vicino, ed aspirava tanto ad averlo e gli diceva spesso: “Lascia giocare un po’
anche me!”
Pian piano sono diventati amici e le ha ceduto il giocattolo.
Pimpinella pellegrina, felice, non è mai arrivata dalla nonna: corre felice per i boschi insieme a tutti i
lupacchiotti pellegrini.
NOTA ESPLICATIVA:
Il lupo capo branco è, molto probabilmente, il capo dei pellegrini che spesso, nel passato, ha cazziato
Pimpinella per la sua irruenza e mania di correre, distanziando i pellegrini.
Il pellegrino piccolo è Dino che, negli anni scorsi, teneva stretto nelle sue mani il suo giocattolo, lo
stendardo che non voleva cedere a nessuno.
Poi Pimpinella è riuscita ad ottenere il giocattolo e sono diventati tanto amici.
C’era una volta una pellegrina
che fin da bambina
sognava di poter camminare
e tanti luoghi visitare.
Degli amici infine incontrò
e con loro il suo sogno realizzò.
Cominciò dalla Terra Santa,
un po’ smarrita e un po’ stanca.
Ad ogni tappa qualcosa dimenticava
che poi, meno male, ritrovava.
Fu un’esperienza meravigliosa,
più importante di ogni altra cosa.
Dopo qualche tempo attraversò
la Francia, la Svizzera e il Gran San Bernardo,
sempre ridendo e sempre scherzando.
In questo anno ha intrapreso
la via piemontese
da Novalesa e Susa
fino alla Sacra di S. Michele,
tra voli di rondini ad ali tese.
Dalle montagne al piano scese
fino a Torino con i suoi tesori
di quadri, chiese e palazzi
con una schiera di compagni
simpatici ed un po’ pazzi.
Si arrivò poi nel Monferrato
con tante colline da ogni lato,
con le colture del grano e delle viti
che tanti fanno lieti e felici.
A Crea, sotto un manto azzurro
e le stelle si passò la notte
a ridere a crepapelle.
Dopo Tortona ed i miracoli di Don Orione
si è giunti a Bobbio
al grande ponte
al confine della regione.
Il prossimo anno, a Dio piacendo,
l’esperienza sarà continuata.
La pellegrina riprenderà la strada
dell’incontro con gli altri
insieme all’allegra brigata.
C’era una volta l’Anno Santo 2000 e c’era una volta l’inizio della nostra storia.
Un giorno siamo partiti a piedi, in tanti; ci dividevano e ci univano insieme, spirito di avventura, fede ed
abitudini; pochi di noi conoscevano la persona che gli camminava accanto, ma a tutti è subito saltato agli
occhi uno zaino enorme che avanzava con due gambette ed una testolina, che spuntavano sopra e sotto:
sembrava una tartaruga!
E lei peregrinava in silenzio, sempre discreta e attenta.
Prima dell’alba, al buio, potenziava i muscoletti con disciplina militare, e come una sveglia
astro-ungarica, con i “cri-cri” dei sacchetti che riponeva nello zaino, svegliava tutta la camerata.
Lei sempre in attesa e mai attesa.
Poi siamo tutti quanti cresciuti negli anni e calati nelle forze e la nostra tartarughina andava sempre più
piano, ed il suo carapace si è ridotto con le forze.
I pellegrinaggi sono andati avanti, le forze indietro, ma la volontà ed il desiderio di essere dei nostri
non l’hanno mai abbandonata, finché è partita da sola per il pellegrinaggio celeste.
C’era una volta Anna ed ora è rimasto il suo ricordo.
C’era una volta un uomo con la sua bella divisa blu, ornata di fregi d’oro che trasportava qua e là per il
mondo, attraverso le vie del cielo, innumerevoli moderni pellegrini di questa terra.
Gente frettolosa che non aveva tempo e forse neanche voglia di guardarsi attorno e di fermarsi un po’. Anche
se il suo lavoro lo gratificava molto, arrivò l’ora della pensione e con grande sorpresa di chi lo conosceva
bene, non fu preso dallo sconforto che solitamente pervade chi lascia un’attività di lavoro tanto amata.
Fu così che un bel giorno, il pellegrino del cielo decise di trasformarsi in pellegrino di terra.
Attaccò al chiodo il suo bell’abito blu e indossò un paio di calzoncini maglietta e scarpe da ginnastica e
mai come in quel momento si sentì libero e felice. Aveva trovato il suo cielo in terra.
Della prima parte della sua vita, aveva conservato la gioia dell’incontro con gli altri e la grinta del
comando, fondamento del suo lavoro.
Decise allora di mettere queste sue doti al servizio di un numeroso gruppo di pellegrini, che nel lontano
2000 vollero onorare il Giubileo andando da Lucca a Roma a piedi. Non si sa come fece a convincerli; sta di
fatto che dopo un anno di preparazione, il condottiero pellegrino col suo esercito, munito di zaino e
vistosi bastoni, partì alla volta di Roma.
Era un giugno a dir poco cocente, le prime tappe provocarono una vera ecatombe. Non si contavano più i colpi
di sole, le piaghe ai piedi, la sete, i chilometri che spesso, a detta dei pellegrini, erano misurati con il
metro del capo. Cominciarono così i primi malumori dettati per lo più da stanchezza e si formarono due
fazioni all’interno di questo improvvisato reggimento.
C’erano i saccopelisti chiamati “peluche” che si sentivano i machi della situazione, per il loro vivere in
maniera più precaria facendo pesare ai cosiddetti “mezza-porzione” il fatto che pur faticando come loro, la
sera avevano un letto più o meno comodo ed una doccia sicura.
Il capo alternava momenti in cui malediceva il giorno della sua insana idea ad altri di euforia specie
quando incontravano gente che apprezzava il loro cammino e andava loro incontro con bottiglie piene d’acqua
e parole di incoraggiamento. Man mano che procedevano però, attraverso mille difficoltà, lo sfottersi, il
pregare, il raccontarsi gli uni gli altri fraternamente, diventò il filo conduttore del loro viaggio. Il
pellegrino condottiero sentiva il peso sempre più grande sulle sue spalle e la notte dormiva poco. Il suo
umore passava dal depresso all’incazzato e quel povero parafulmine in odore di santità che divideva la vita
e la camera con lui, cercava di ammortizzare i colpi dei suoi sfoghi come meglio poteva.
Però, un bel giorno, quasi all’improvviso dall’alto di Monte Mario, si stagliò davanti ai loro occhi, come
per miracolo, l’immagine della città di Roma, avvolta in una luce indimenticabile e quella enorme cupola non
era un miraggio, era proprio là e li aspettava a braccia aperte come volesse consolare e cancellare ogni
cruccio e fatica.
Stranamente la stanchezza sembrava svanita. Quella che per giorni era sembrata un’armata Brancaleone, con
grande gioia e stupore del capo, diventò quello che lui aveva sognato dal primo momento. I “suoi”
pellegrini, come lui li chiamava, avevano messo non solo la maglietta celeste come il cielo, ma anche le ali
ai piedi, quelle ali che lui ben conosceva e che un tempo avevano fatto parte della sua vita.
Non provò rimpianto per quelle perché nel frattempo queste si erano moltiplicate ai piedi di tutti coloro
che quel 16 Giugno di dodici anni fa planarono con lui su Piazza San Pietro, il più affollato aeroporto del
mondo e l’azzurro di quelle magliette si fuse con l’azzurro del cielo.
C’era una volta un vecchio pellegrino, di nome Anonis.
Partito in gioventù dai lontani paesi dell’Oriente, aveva camminato a lungo in tutto il mondo, instancabile
e curioso. Aveva visto tante cose, ma tutto l’interessava.
Aveva incontrato tante persone, ma ogni essere che avvicinava destava la sua attenzione.
Un giorno, scendendo dalle montagne per raggiungere il grande fiume che lo avrebbe riportato verso le sue
terre, vide su una cima una costruzione ardita e decise di raggiungerla.
La strada stretta, ripida, a tornanti ravvicinati, era molto faticosa tanto che il vecchio Anonis capì
subito che, da solo, non ce l’avrebbe fatta.
Allora pregò così: “Aiutami, Signore, se è tua volontà che io salga” e continuò con passo sempre più
malfermo.
Alla svolta successiva si trovò davanti un giovane bellissimo con una massa di riccioli d’oro, occhi azzurri
intensi e un gran sorriso contagioso. “Sono Maicol” si presentò.
“Ti aspettavo per salire con te”. Poi lo prese sottobraccio e cominciò a camminare con lui.
E mentre salivano, lo sosteneva con tanta cura e tanta sollecitudine che il vecchio si sentì rincuorato e
consolato – non solo, ma ogni volta che il suo piede stanco esitava e vacillava, il giovane lo sorreggeva
abbracciandolo.
Giunti sulla cima del monte, ai piedi di una costruzione straordinaria, che toccava il cielo, il vecchio col
cuore pieno di gioia e gratitudine, si volse al suo compagno di viaggio per ringraziarlo, ma questo, senza
una parola, gli diede un’ultima grande stretta e in un attimo si dileguò.
Il vecchio pellegrino, stupefatto, si fece persuaso, allora, di aver fatto un incontro straordinario, di
aver avuto un compagno di viaggio veramente eccezionale... e se ne rese conto appieno solo l’indomani
quando, per offrire qualche moneta ai due frati dai nomi strani (Femore Disastrato e Cima Tempestosa) che
gli avevano dato ospitalità, scoprì che l’angelico compagno di strada bello e biondo lo aveva
“diabolicamente” alleggerito di ogni suo avere!
2010
Partendo dalla poesia metasemantica di Fosco Maraini “IL LONFO”, si è trasformata a piacere cercando un senso compiuto.
2011
I pellegrini hanno trascritto e declamato vecchie ninne nanne, oppure ne hanno realizzate di nuove.
© 2021 I Pellegrini della Francigena. All Rights Reserved. Sito web sviluppato da Chiara Di Pietro